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Canzone triste

L’oceano di casa mia è talmente grande che a percorrerlo si arriva nel futuro.

Ho costruito un piccolissimo yacht di plastica trasparente
che percorresse l’oceano con a bordo solo una lettera,
lo strumento più prezioso da donare alla scienza
con a bordo soltanto i numeri della lotteria del giorno dopo.
Ho visto gli invitati affrettarsi verso una festa già finita
e i superstiti, i reali, far sparire anche le briciole dal buffet
e l’oceano, che prima portava a un albero di fichi e a una pianta di melanzane,
aspettare l’arrivo dell’ospite più importante.

Quanti volumi ha l’oceano di casa mia?
C’è sicuramente un satellite, da qualche parte dentro di me,
che regola una marea segreta e invisibile:
L’acqua affamata percola nelle profondità della terra impoverita
per tornare al passato, in anticipo, a una festa
dove le sedie bianche di plastica sono vuote e il buffet non è ancora stato allestito
E l’oceano, la vigna emerge ancora verde e viva dall’acqua scura,
alza e abbassa di continuo il volume di una canzone triste.

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Drifting Mars

22:19
Lunedì, 31 Agosto 2020

StarWalk2 segnala lo sciame meteorico delle Alfa Aurigidi.
Un mese fa, il 30 luglio 2020, la NASA ha avviato la missione Mars 2020 lanciando il rover Perseverance, che atterrerà sul pianeta rosso il 18 febbraio 2021, precisamente sulla regione del cratere Jezero (antico delta di un fiume).
Perceverance è Umiltà-Ingenuità-Pazienza. Con Umiltà si prepara ad esplorare un pianeta deserto; con Ingenuità ne percorrerà la superficie; con Pazienza svolgerà i suoi compiti.
È certamente un buon esempio da seguire, che tuttavia come tale, all’esaurirsi delle sue funzioni vedrà il tramonto della propria vita (o viceversa). Un tramonto singolare, perché osservato da un pianeta che non è la Terra. Più rosso, più desolato. Un buon esempio non è forse sempre fine a se stesso?
In un certo senso è così: si deve essere capaci di coglierlo, perché non sia più fine a se stesso, è un esercizio attivo. Una volta colto, il buon esempio mette le radici nel contadino ospite, fino a che non vi germoglierà, forse sotto un’altra forma, dall’aspetto mutato e dal significato opposto. Un altro contadino coglierà poi quest’altro buon esempio. Se anche lui lascierà radicare il buon esempio dentro di sé, allora la catena non sarà spezzata, e un fine ancora e sempre più grande acquisterà maggiore speranza di realizzarsi.
La scrittura segue a grandi linee lo stesso principio: una buona scrittura non è necessariamente spontanea, non è sentita e accorata. Una buona scrittura è quella dello scrittore capace di scrivere ciò che vorrebbe leggere. Solo in questo modo può diventare il buon esempio di se stessa, articolarsi così in una catena di parole-frasi-idee capace di vita propria. L’anima di un libro che stimola il lettore, l’anima di un libro che di sé fa pensare «vorrei averti scritto io» e che così dà vita a nuovi scrittori. Solo chi dentro di sé possiede queste due facoltà può scrivere un libro che sia in qualche modo un buon esempio: primo, la facoltà di desiderare davvero di aver scritto un libro già scritto; secondo, la capacità di scrivere ciò che si vorrebbe leggere. Quest’ultima presuppone che il contenuto di un libro valido sia già presente in qualche angolo della coscienza. La prima è un’evidente dimostrazione della possibilità di esprimere concretamente le proprie idee. Ci vuole Umiltà per ammettere che qualcun altro sia stato in grado di farlo per primo.
Perseverance è perciò Umiltà-Ingenuità-Pazienza.
Perseverance è l’atto dello scrivere.

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Emperor Tomato Ketchup, il regno del signore delle mosche

Il cinema sperimentale giapponese del secondo dopoguerra è animato da un profondo spirito di rivolta. Trova il suo manifesto principale nelle immagini violente e spiazzanti dei suoi film, i cui protagonisti sono generalmente giovani ed eccentrici rivoluzionari.
L’azione dell’individuo che non intende cedere al nichilismo è una risposta alla sempre più inarrestabile globalizzazione; l’alienazione in quanto realtà disumana si fa movente principale di quelle rivolte che mirano al rovesciamento del governo giapponese, e diretta conseguenza di quei sentimenti di delusione e disappunto in seguito al rinnovo del trattato di sicurezza reciproca tra Stati Uniti e Giappone del 1960.
L’umiliazione inflitta al popolo giapponese nel momento in cui l’imperatore Hirohito fu costretto a dichiarare via radio la propria natura umana, negando dunque una discendenza divina, è un fatto da considerarsi cruciale in relazione alle ripercussioni che ebbe nella società. In seguito alla demilitarizzazione della nazione si diffuse un forte sentimento pacifista concretizzato nella nuova Costituzione del 1947. È a causa di questi fatti che Yukio Mishima fondò e guidò il Tate no Kai; il giorno in cui tenne il suo ultimo discorso ai soldati delle Jieitai ed eseguì il seppuku, egli si consacrò eternamente agli ideali del vecchio glorioso Giappone.

«Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo».

Intanto lo Zengakuren non sembrava intenzionato a ritirarsi. Gli studenti manifestavano principalmente contro lo schieramento del Giappone al fianco degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, l’aumento dei costi dell’istruzione e la corruzione dei funzionari delle università. Eppure questo anarchismo sociale non frenò il rifiorire dell’arte, dal cinema alla letteratura; anzi, ne incrementò la realizzazione e ispirò notevolmente la produzione cinematografica. Emersero così registi come Nagisa Ōshima e Shūji Terayama, ognuno con la propria ideologia politica, non sempre affine agli ideali che incalzavano le numerose manifestazioni di protesta nel Giappone del dopoguerra.

In particolar modo Shūji Terayama non si schierò dalla parte di Mishima, ma dimostrò una vera e propria avversione nei confronti dei suoi moventi rivoluzionari e dell’attivismo politico in senso più ampio. Per cui la filmografia del regista, nonostante sia in parte innegabilmente condizionata dal contesto sociale in cui si è formata, si avvale di tematiche e contenuti di tutt’altro genere; la sua interpretazione si fa per questo motivo controversa.
Emperor Tomato Ketchup, film del 1971, esprime senza dubbio sia un’accesa critica alla globalizzazione, sia la negazione di qualsiasi forma di radicalismo.

«Il capitalismo è distrutto alla base, se il suo obiettivo è il piacere e non l’accumulo di ricchezza».

L’incipit del film è un frammento tratto da Il Capitale di Karl Marx, sfruttato forse dal regista per introdurre il concetto del piacere come antidoto al capitalismo. Considerando tale prospettiva, Terayama sembra voler mettere in luce l’essenza contraddittoria della realtà sociale da lui vissuta: anche se il piacere non dipendesse dall’accumulo di ricchezza, se anche esso stesso divenisse il mezzo con cui sopprimere il capitalismo, il risultato non corrisponderebbe comunque alla disfatta di quest’ultimo.
Il regista inscena così una società nella quale i bambini hanno sottratto il potere agli adulti e regnano sovrani, comandati dall’autorità dell’imperatore Tomato Ketchup e dalle loro pulsioni. All’inizio del film sono dettati un austero editto imperiale e la prima sezione della Costituzione istituita dall’imperatore.

Editto imperiale della Costituzione Tomato Ketchup
Faremo la gioia e la gloria del nostro cuore nel vedere la prosperità nazionale e la gioia dei nostri bambini.
Disprezziamo il nostro lignaggio imperiale.
Speriamo di mantenere la prosperità dello Stato in accordo con i nostri amati bambini.

Sezione 1: L’imperatore

Articolo 1
L’imperatore è sacro e inviolabile.

Articolo 2
Per legge, al trono imperiale vi si potrà salire solo durante l’infanzia e vi si dovrà rinunciare una volta raggiunta l’adolescenza.

Articolo 3
Le scarpe dell’imperatore verranno lucidate dalla lingua del proprio padre, e il suo tedio sarà alleviato dal suono del violino della propria madre.

Articolo 4
L’imperatore comanda le forze armate, mantiene l’ordine e promuove il benessere dei bambini.

Articolo 5
L’imperatore farà del Ketchup, suo cibo preferito, il simbolo nazionale.

Articolo 6
I desideri dell’imperatore non devono coinvolgere adulti.

Articolo 7
L’imperatore potrà dichiarare guerre, firmare paci e stipulare trattati.

Articolo 8
L’imperatore indossa un cappello e non lo toglie per nessun motivo.

Articolo 9
I violatori della dignità imperiale saranno accusati di lesa maestà e verranno impiccati.

Le parole accuratamente scelte da Terayama per offrire una panoramica dell’impero Tomato Ketchup, in rapporto allo scenario politico in cui è nato il film, mostrano sfaccettature divergenti: da un lato vi è la critica all’estremismo dei nazionalisti, di cui è partecipe Yukio Mishima, espressa mediante l’esasperazione del potere dell’imperatore Tomato Ketchup. Il quarto e il settimo articolo fanno appunto riferimento alla smilitarizzazione imposta al Giappone con il trattato di San Francisco del 1951, e restituiscono idealmente il pieno potere all’imperatore del trono del crisantemo. D’altra parte vi è la critica alla globalizzazione che ha travolto la nazione dall’inizio del protettorato degli Stati Uniti sul Giappone; non poteva essere più appropriata la scelta del nome dell’impero rappresentato nel film: Tomato Ketchup, la quintessenza del gusto americano.
Attraverso Emperor Tomato Ketchup, il regista più di ogni altra cosa sembra aver voluto mettere in risalto la contraddittorietà delle ideologie rivoluzionarie che andavano diffondendosi in quel contesto sociale.

«Non credo affatto alla rivoluzione politica. Piuttosto, mi interessa una rivoluzione sessuale che includa una rivoluzione nel linguaggio, nel contatto, nello scrivere».

Il filtro roseo della pellicola è forse un rimando a quel genere cinematografico giapponese che è il pinku eiga, nato negli anni sessanta e dal contenuto erotico di carattere sperimentale.
Un tema ricorrente nel cinema di Terayama, che risalta particolarmente nel film Pastoral: To Die in the Country, è quello del rapporto tra madre e figlio. In Emperor Tomato Ketchup i bambini, che detengono il pieno controllo della società, sottopongono gli adulti a violenze di vario genere. Emulando sommariamente le gesta degli stessi adulti, si approcciano alle donne con la medesima naturalezza con cui si rapporterebbero alla propria madre. La figura del bambino, nell’atto di sottomettere l’adulto, evidenzia così la sensualità che l’uomo attribuisce morbosamente al potere.

«La prima cosa a cui si abituarono fu il ritmo del lento passaggio dall’alba al rapido crepuscolo. Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l’aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza».

La citazione è tratta da Il signore delle mosche, romanzo del 1954 di William Golding.
Esso descrive una società utopica, o distopica a seconda del punto di vista; che questa sia o no una condizione imposta, sia Terayama che Golding sembrano voler analizzare e mettere in discussione la propria istituzione di appartenenza attraverso lo studio dell’ipotetico comportamento di bambini allontanati dai loro punti di riferimento. Nel caso di Emperor Tomato Ketchup i bambini hanno già a disposizione strumenti di controllo come armi da fuoco e un campo di battaglia sottratto direttamente agli adulti. I bambini descritti nel libro vengono invece allontanati dalla loro quotidianità di civili: dopo un primo periodo di euforica libertà, essi sembrano voler ripristinare la società di provenienza che appare loro come una realtà imprescindibile. Identificano in primo luogo il potenziale leader del gruppo, sottostanno alle sue convincenti disposizioni, e nel momento in cui riconoscono in un altro qualità superiori cambiano fazione senza riguardo.
È possibile che lo scenario fanciullesco sia servito sia nel film come nel libro a mettere in luce l’ambivalenza del concetto di opportunismo; che si tratti di saper cogliere un’opportunità o indulgere a favore del proprio tornaconto, in entrambi i casi l’epilogo è prevedibile: la società e la politica sono inscindibili, ma le necessità di una non corrispondono obbligatoriamente a quelle dell’altra.

Per poter comprendere almeno in parte figure eclettiche come quella di Shūji Terayama, è indispensabile tracciare il quadro del complesso periodo storico di una nazione piena di fascino e contraddizioni. Poeta e drammaturgo prima ancora che regista, con Emperor Tomato Ketchup il suo intento era forse quello di mettere a nudo un conflitto privo di risposte, in un’epoca in cui il Giappone stava cercando di opporre resistenza al dominio materiale e intellettuale degli Stati Uniti. Ha potuto così mettere in luce i principali tormenti e debolezze dell’uomo: la ricerca del potere, e l’incapacità quasi assoluta di poter sfuggire alle responsabilità che esso porta con sé.

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Bellezza e tristezza, tra letteratura e cinema

Se si vuole riassumere con una sola parola la sostanza dell’estetica giapponese si deve ricorrere al concetto di wabi-sabi; volendone semplificare il significato si può in qualche modo considerarlo come il corrispondente del panta rei.
Wabi-sabi è l’imperfezione, l’incompletezza, la transitorietà dell’esistenza stessa. E la sua essenza impressa nella quotidianità del Giappone la si può non solo intuire, ma cogliere attraverso i sensi anche in luoghi come le stazioni ferroviarie e metropolitane. Le reti di trasporto sono organizzate in maniera impeccabile, sinergica. Nel caso in cui si perda un treno, ecco che in brevissimo tempo si vede arrivare il successivo. Non si ha così la sensazione di aver perso del tempo, ma la certezza rassicurante che si possa accettare la realtà per come viene. Il compromesso tra una vita frenetica e il benessere personale.

Bellezza e tristezza è il titolo di un romanzo di Yasunari Kawabata del 1964 e dell’omonimo film di Masahiro Shinoda del 1965, ritratto fedele dell’opera dello scrittore.
Ciò che trapela sin dalle prime pagine è un forte senso di transitorietà; infatti il protagonista, Toshio Oki, fa la sua prima apparizione proprio sul rapido Tokyo-Kyoto. La trama si sviluppa così attraverso l’intreccio di complesse relazioni sentimentali, mediate per l’appunto dagli spostamenti in treno.
Kawabata affronta con maestria svariate tematiche quali le relazioni romantiche, l’alienazione dal presente e lo smarrimento nei confronti di un imminente futuro. Ricco di rievocazioni e contraddittorietà, il romanzo è strutturato alternando il profilo e la storia dei personaggi di capitolo in capitolo.
Vi sono poi Otoko Ueno, pittrice idealizzata nei ricordi di Oki, e Keiko Sakami; a quest’ultima è dedicata una particolare attenzione. Keiko è una giovane donna trasferitasi a Kyoto, nell’intenzione di divenire allieva di Otoko. Con il passare del tempo si instaura tra le due un rapporto di dipendenza, che sembra far emergere un sentimento di frustrazione da parte di Otoko nei confronti della sua allieva; frustrazione dovuta all’invidia di quella freschezza della gioventù che vent’anni prima le venne portata via da Oki.

«A volte Keiko dipinge quadri astratti con un’intensità straordinaria. Mi sembra quasi di intravedervi una follia e nello stesso tempo mi incanta profondamente. Ne sono quasi invidiosa».

Figure di giovani donne conturbanti come quella di Keiko, sono frequenti nella letteratura di Kawabata; come è sempre presente la contrapposizione tra la giovinezza e la vecchiaia. Entrambe le tematiche richiamano immediatamente altri titoli come Il paese delle neviLa casa delle belle addormentate.

Per quanto riguarda la trasposizione cinematografica, la fotografia dai colori pastello e la scelta dell’attrice che interpreta Keiko non potevano essere più appropriate: Mariko Kaga, allora ventiduenne, riesce ad esprimere chiaramente l’incertezza dei rapporti umani in un’età di transizione. La sua stessa figura di attrice è impregnata di questo concetto. Ne è un esempio calzante la sua parte nel film di Kazuo Kuroki Silence Has No Wings del 1966, classico della Nouvelle Vague giapponese, che pone la farfalla come animale simbolico analogo alla figura di una giovane donna. Ma anche la parte che interpreta in Pale Flower nel 1964, film dello stesso Masahiro Shinoda, regista che ancora una volta ha potuto cogliere e sviluppare interamente il suo potenziale in questo film dalle sfumature noir. L’attrice rimanda a un’autentica Anna Karina dai tratti orientali.

In conclusione, se in parte può essere interessante analizzare una cultura come quella giapponese dal punto di vista letterario, trovo che sia fondamentale approfondire questa conoscenza attraverso le immagini e i suoni di un film. Mi discosto dall’eterno dibattito tra i sostenitori del libro in quanto superiore al film e viceversa con questa citazione inedita: «Non avrei mai potuto apprezzare pienamente Io sono un gatto senza aver mai visto almeno un film di Ozu».